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REVIEWSLE RECENSIONI
18/03/2019
Caboose
Hinterland Blues
Il blues dei Caboose guarda in faccia alla notte, possiede lo sguardo torvo di chi sceglie il rumore e la distorsione evitando accuratamente ogni forma di compiacimento, e deflagra sferragliante attraverso un beat scarno e affilato come un serramanico

Breve aneddoto introduttivo. L’altra sera, durante una cena, ho messo nel lettore questo cd, raccontando brevemente ai miei ospiti chi fossero i Caboose. Alla seconda canzone, erano tutti concentrati nell’ascolto, e la prima domanda è stata: ma davvero sono italiani?  Da quando in Italia escono dischi così? Ecco il nocciolo della questione: siamo talmente abituati al niente, che quando ascoltiamo un gran disco, facciamo fatica a credere che sia un progetto tutto nostrano. La New Model Label, d’altra parte, da sempre ci ha abituati bene, regalandoci dischi di grande qualità, che sono un autentico piacere per le orecchie.

Certo, questi Caboose (nome mutuato da un vagone da un particolare vagone presente nei treni merci americani) superano anche le più ottimistiche previsioni, sia per la qualità del suono che per le composizioni, tutte maledettamente elettrizzanti. La band, composta da Louis De Cicco (chitarra e voce), Carlo Corso (batteria) e Biagio Daniele (armonica e dulcimer) (ma danno il loro contributo anche Bruno Belardi e Emanuele Carulli al basso, e Giovanna Salvo Rossi come backing vocal in un paio di brani) è all’esordio sulla lunga distanza, ma ha già alle spalle un Ep, pubblicato l’anno scorso, e, è proprio il caso di dirlo, una vagonata di concerti, che li ha portati ad aprire per una leggenda come Watermelon Slim e a partecipare al prestigioso International Blues Challenge, manifestazione che si tiene ogni anno a Memphis e che vede la partecipazione dei migliori esponenti del genere.

L’idea di blues che sta alla base del progetto è in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità, evoca i grandi classici del passato (non è un caso la cover di Freight Train Blues attribuita a Mississippi Fred Mc Dowell) nonostante la narrazione abbia i piedi ben piantati nel presente, sviluppando temi sociali e politici che ci riguardano da vicino (disoccupazione, sfruttamento, social media, etc), e contamina il genere arricchendolo con scorie di psichedelia, di spoken word e di un rock sporco e ansiogeno.

Il blues dei Caboose guarda in faccia alla notte, possiede lo sguardo torvo di chi sceglie il rumore e la distorsione evitando accuratamente ogni forma di compiacimento, deflagra sferragliante attraverso un beat scarno e affilato come un serramanico, e se distilla gocce di melodia, lo fa attingendo a piene mani dalla melma più limacciosa del Mississippi. Un disco che richiama gli umori sulfurei dei Wovenhand, lo stile drone heavy e le sfasature ritmiche di R.L. Burnside, i riff meticci dell’hill country blues alla North Mississippi Allstars, ma che comunque mantiene una propria autonomia estetica e sostanziale. Suona splendidamente, questo Hinterland Blues, miscelando pochi barbagli di luce (la melodia spoglia della splendida They Call Him Poet) a deragliante furore (Suicide Song) e a mantra oscuri e melmosi (Landslide), centrando poi il bersaglio grosso nella title track, devastante crescendo che trasfigura l’iniziale spoken word in un allucinato sabba notturno senza freni.

Dispiace solo essersi accorti con colpevole ritardo di un disco così bello (è uscito a gennaio di quest'anno), che, per quanto mi riguarda, entrerà di diritto nella mia personale top ten del 2019. Non è, comunque, mai troppo tardi: quindi, fidatevi del suggerimento e recuperatelo. Chi ama il blues non può proprio lasciarselo sfuggire.