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REVIEWSLE RECENSIONI
03/01/2019
Big Joanie
Sistahs
La risposta londinese ai Parquet Courts si chiama Big Joanie, è tutta al femminile ed è in grado di capovolgere con una tecnica volutamente approssimativa i paradigmi del post-punk, almeno per chi vuol stare a un gioco le cui regole sembrano inventate di sana pianta

Un disco di gente che non è capace a suonare, nel 2018, deve avere canzoni straordinarie per risultare convincente. Il 77 è finito da un pezzo e, oggi, anche il punk più situazionista può contare su batteristi che vanno a tempo, chitarristi dotati del minimo sindacale di tecnica e bassisti che se la cavano anche senza plettro. Per non parlare delle diavolerie che si usano in studio e che possono far sembrare bravi e intonati cani e porci.

Il consiglio per approcciare i Big Joanie è quindi quello di passare prima per i loro brani registrati e poi, se proprio vi va, cercare in rete qualche esibizione dal vivo. Ma vi avverto che potreste rimanere delusi nel vedere le tre ragazze londinesi messe in linea sul palco, sorrette da una batteria che, in confronto, Moe Tucker è Bill Bruford e, nel complesso, stentare un po’ nell’arte della musica d’insieme. Molto istinto e poca dimestichezza con gli strumenti ma questo è il punk, bellezze, ed è un peccato perché “Sistahs”, l’album d’esordio delle Big Joanie, è una delle cose migliori uscite quest’anno.

Big Joanie è un trio inglese costituito dalla cantante e chitarrista Stephanie Phillips a seguito di un annuncio con il quale ha reclutato altre “femministe nere” (parole sue) per formare una band e dare vita alle sue composizioni. La line-up si è così completata con Chardine Taylor-Stone (quella che suona in piedi il timpano usato come grancassa e il rullante e basta) e Estella Adeyeri al basso. Il gruppo ha le sue radici nel sottosuolo indipendente londinese, quello aderente al non-manifesto del DIY - Do It Yourself, che in parole povere significa facciamo come cazzo ci pare.

Ascoltando le 11 tracce di “Sistahs” si percepisce però quanto l’approssimazione tecnica possa risultare stretta al cospetto di potenzialità così evidenti. Le ragazze sono davvero brave a costruire pezzi e far venire voglia al prossimo di ascoltarli. Non a caso sovraincisioni, correzioni e aggiustamenti sulle parti melodiche e ritmiche sembrano pensate apposta per portare le Big Joanie a un passo dalla perfezione, un compromesso sufficiente a contribuire alla qualità del disco senza strappare il loro sound dallo scenario radicale a cui è giusto che la band continui ad attingere. L’esempio più eclatante è “Fall Asleep”, un singolo perfetto per le playlist indie di tutti i gusti, un pezzo che spacca perché suonato con tutti i canoni del post-punk: un paio di tracce di chitarra, batteria come si deve e, tra i vari accorgimenti utilizzati per migliorare la canzone, una bella sequenza di sintetizzatore che non guasta mai.

La voce di Stephanie Phillips è la componente più riuscita dello stile della band. La cantante riesce a far emergere melodie efficaci da sequenze di accordi sempre piuttosto elementari e ricorsive, ed è questo aspetto che rende “Sistahs” un disco davvero riuscito a differenza di altri esperimenti in quota post-punk, laddove puntare sul comportarsi da bastian contrari a tutti i costi non paga se, alla base, le composizioni non sono sempre convincenti, una frecciatina ai gruppi come i Parquet Courts - ai quali le Big Joanie hanno fatto recentemente da supporto ai concerti in UK - i quali spesso suppliscono con le trovate alternative alla carenza di inventiva.

La tracklist del primo album di questo trio tutto al femminile, invece, non fa una piega. “New Year” è il prototipo della hit indie se non fosse per il tempo girato di batteria che si raddrizza solo a metà e che, a quel punto, lancia il pezzo in modo rassicurante facendo tirare un sospiro di sollievo all’ascoltatore. Alla potenza di “Fall Asleep” segue l’altrettanto avvincente “Used To Be Friends” e la strampalata “Eyes”, contraddistinta da un fastidioso flautino e una svolta inaspettata nel blues. L’album apre una parentesi dark con “Way out” e “Down down” per poi tornare irriverente con “Tell a lie” e persino no-wave in “Token” e “It’s you”. “How Could You Love Me” ha un ritornello da lento anni 50 in antitesi con l’introspettiva “Cut your hear”, in cui ritornano un paio di strumenti a tastiera a riempire l’atmosfera e a conferire maggiore credibilità al progetto.

“Sistahs” è uno disco bellissimo, davvero. Non riesco a pensare a niente di meglio di una voce black che canta pezzi new wave, come in parte hanno fatto Tunde Adebimpe o Kele Okereke. Per le Big Joanie resta però irrisolta la questione live e, se posso dire la mia, la band non può farsene una ragione: la sezione ritmica non è solo una convenzione imposta dallo show business per vendere dischi, a meno che tu non viva su Marte e faccia musica per esseri alieni, senza pancia per ascoltare e senza gambe per ballare. Qui, sul pianeta Terra, fanno ancora storia le emozioni forti.