Una fotografia può bastare. Un bambino seduto sulle rovine di una casa, lo scenario è quella di una grande guerra mondiale passata per il quartiere come avrebbe fatto il carretto dei gelati in un pomeriggio qualunque, e poi le bombe ormai amalgamate con la polvere e i cocci di vite devastate ovunque si guardi. Ma un bambino sopravvissuto, che la Morante chiama Useppe, siede sulle macerie e sembra pensare a quali giochi inventarsi ora che la vita e tutte le cose hanno delle forme che nessuno mai avrebbe potuto immaginare… neanche un adulto che tanto insegna a campare, neanche la maestra di scuola che sa come si scrive ogni parola… e neanche tua madre, neanche lei sa come spiegarlo. Useppe, figlio malato, nato da una delle tante facce che ha la violenza di questa guerra mondiale, è l’immagine della rinascita ma anche del grande male che porta dentro la vita, è il simbolo di un popolo che sta diventando qualcosa ma anche di una coscienza di madre che lentamente si ammala e poi muore, quasi planando, sacrificando se stessa ogni giorno e per il giorno che arriva. Che poi il grande male vince anche sulla resistenza e forse, qui la chiave di lettura che sottolineo, il popolo asservito viene quindi comandato e alla fine soccombe e anche perisce al cospetto del grande potere costituito (diceva anche Faber). Questo è solo un angolo del grande romanzo che è “La Storia” pubblicato da Elsa Morante nel 1974. Va letto. Non c’è altro da aggiungere.
Però oggi vi parliamo di un disco. Si intitola “La febbre incendiaria”: il secondo lavoro di inediti in studio di Marco Cantini, cantautore toscano, già caduto vittorioso in pasto alla critica di tutto il nostro bel paese per averci raccontato Andrea Pazienza, la sua vita, la sua droga, la sua morte, la sua Bologna, vittorioso di bellezza poetica per averci raccontato dell’Italia che nel ’77 gridava all’emancipazione sociale.
Canzone d’autore che cerca e dimostra l’impegno, letterario prima, culturale poi, spirituale durante. Ben 14 inediti di una scrittura raffinata che celebra e racconta questo romanzo della Morante: il punto di vista che diviene cronaca di una lettura in forma canzone.
E allora dovremmo parlare di un concept album che la RadiciMusic ha confezionato in modo magistrale, con opere disegnate dall’artista Massimo Cantini (suo padre).
E dovremmo anche parlare doverosamente di come tutto questo suono, elegante, ben prodotto, è stato registrato in diverse sessioni rigorosamente Live in Studio da Gianfilippo Boni con la produzione artistica spalleggiata e condotta per mano anche dal violinista Francesco Moneti (Modena City Ramblers) e Claudio Giovagnoli (Funk Off).
Basta solo dire che “La febbre incendiaria” è un’opera che non merita paragoni perché non cerca alcun tipo di sfida o di competizione, che non ha tempo da perdere nell’annosa rincorsa alla celebrazione mediatica. Dunque, spegnete i cellulari, fate girare il disco di Marco Cantini e aprite il romanzo a pagina 1.
Era il 1974. Questo romanzo di Elsa Morante andrebbe riletto ancora oggi, ogni giorno, ed io vorrei cominciare l’intervista condividendo con te un pensiero. Andrebbe riletto ogni giorno dicevo, e non tanto per la testimonianza storica di una guerra, o per la meraviglia di un romanzo in sé, quanto più per quel principio di condivisione, di comunione, di Comune Anarchica a cui tendono le riflessioni finali del romanzo stesso. La proprietà privata come insulto alla dignità di un popolo in quanto tale. Concetti forti, assolutamente rivoluzionari. Eppure, tutto, tutti e tutte le cose sembrano venir create e sembrano vivere solo e soltanto in questa direzione di privatizzazione. Ciò che è mio non è e non potrà mai essere tuo. Dunque, un romanzo simile non poteva che diventare musica in quanto opera pubblica e liberamente accessibile… che cosa ne pensi di questo parallelismo?
Bisogna anche dire che Elsa Morante impose la sua volontà di dare alle stampe “La Storia” in edizione tascabile, in brossura e a basso costo, proprio per renderlo alla portata di tutti, maggiormente accessibile, e divulgarne il più possibile i suoi contenuti (che restano quelli di un romanzo popolare a tutti gli effetti).
Riguardo alle riflessioni finali di cui parli, immagino che ti riferisca all’invettiva antiborghese di Davide Segre nell’osteria: contenuti certamente molto cari alla scrittrice stessa se si pensa che, come spesso l’usus scribendi morantiano prevedeva, furono oggetto di molteplici rifacimenti interni, che inizialmente avevano collocato altrove quei concetti espressi da Davide ubriaco tra gli avventori: prima all’anonimo compilatore e dopo alla voce narrante. Ma alla fine Elsa Morante decise di affidare al personaggio più ribelle e sovversivo - a lui e non solo, basti pensare a Giuseppe Ramundo, al quale ho dedicato “L’anarchia” cantata assieme a Marco Rovelli - i concetti relativi al sistema della sopraffazione: il Potere, che detiene i mezzi per perpetrare ingiustizie, si rivale sempre su una massa asservita e impotente.
Una domanda che sembra banale, anzi forse lo è nella sua estetica ma ti prego di andare oltre. Perché questo romanzo come focus del tuo disco? Come nasce questa idea?
Premetto che da tanti anni, ormai, non riesco a scrivere canzoni per sentirmi meno triste od angosciato; non sono capace di scrivere testi per tradurre in musica i miei piccoli o grandi problemi personali. Questo disco nasce soprattutto dagli innumerevoli ascolti, dalle passioni di tutta una vita: la musica intesa come strumento di cultura, di denuncia sociale; e per me - almeno in questa fase della mia esistenza - non c’è tertium possibile. Le motivazioni che mi hanno spinto a dedicare un intero concept album a “La Storia” si possono dedurre dal sottotitolo del romanzo stesso: “uno scandalo che dura da diecimila anni” è uno scandalo che non avrà mai fine, racchiude temi e significati sempre attuali indipendentemente dallo scenario storico nel quale vengono collocati. Ed ha purtroppo molto senso, ancora oggi, la veemente requisitoria espressa dalla Morante nei confronti del sistema e dell’intera società.
Dei tanti luoghi di questo romanzo mi ha molto colpito quel rifugio naturale di sterpaglie dove Useppe e Bella andavano durante il giorno a giocare. Luoghi anche proibiti se vuoi. Una delle tante alcove segrete dove essere se stessi finalmente e da dove guardare il mondo senza la presenza degli adulti. Beh, l’ho trovata potente come immagine, notevole se pensi a quanto sia di tutti noi il bisogno di un simile luogo nella frenesia quotidiana di questo mondo fatto di grandi… ogni santo giorno. Le guerre sono altre ma non sono poi tanto diverse. Il tuo disco l’ho letto proprio in questo modo e dimmi un po’ se ti ritrovi in questa chiave di lettura: un rifugiarsi dalle regole proibitive dei grandi, quindi delle mode e del conveniente, un luogo (la musica) dove essere davvero quel che si è. E tu hai scelto di parlare così del tuo romanzo preferito…
Direi di sì. E a proposito dell’essere se stessi, “La febbre incendiaria” e “Siamo noi quelli che aspettavamo” sono due dischi che si differenziano volutamente nel suono ma che hanno in comune la consapevolezza e la ferma decisione, da parte mia, di seguire un gusto personale di testo e melodia. Nessuna moda o convenienza, solo la mia creatività influenzata dai miei ascolti e certamente non da quelli di altri: fortunatamente oggi sono ben lontani i tempi in cui qualche produttore artistico (o semplice compagno di progetti musicali) provava ad impormi gli sterili dettami di certe regole del pop-rock (termine ibrido dai contorni incerti - molto in voga negli anni ’90 - che ho sempre osteggiato), anni nei quali mi veniva detto che il ritornello doveva essere orecchiabile e non farsi troppo attendere, la canzone girare su pochi accordi (meglio se maggiori), e la struttura strofa-bridge-ritornello (senza dimenticare i famigerati special finali) assurta a mantra imprescindibile. Ricordo feroci discussioni sull’importanza, a loro dire, di sostituire gli accordi minori che mettevo nei miei brani con qualcuno di nona: “perché sono tristi”, mi dicevano. Oppure “il pezzo non è radiofonico”, stigmatizzavano. Seppure all’epoca fossi musicalmente acerbo sotto vari aspetti, non ho mai voluto essere allegro e rassicurante, né tantomeno realizzare hit di facile presa. Ad ogni modo, sono tutte considerazioni e catalogazioni che oggi sento più che mai grottesche e ridicole: è banale dirlo, ma la verità è che la buona musica e le grandi canzoni restano per sempre, mentre le mode - per definizione - sono fatte per passare. Così come la brutta musica destinata ad essere dimenticata.
Parliamo di questo disco fresco di pubblicazione. Il primo grande tassello è la dimensione LIVE del suono che hai inciso. Perché questa scelta? Che significato ha?
Dopo l’estate del 2017, valutando il da farsi con Gianfilippo Boni (un punto fermo imprescindibile, con me di nuovo alla produzione artistica) e Fabrizio Morganti (straordinario batterista, oltre che prezioso consigliere musicale), abbiamo deciso di registrare le nuove canzoni live in presa diretta: volevamo un salto di qualità nel suono globale, quel quid in più in termini di freschezza ed empatia, e sapevamo di potercelo permettere grazie agli altri eccezionali musicisti - che hanno partecipato agli arrangiamenti in sala prove, e alla conseguente registrazione presso il SoundClinic Studio Larione 10 di Firenze - quali Lele Fontana, Lorenzo Forti, Riccardo Galardini, Claudio Giovagnoli e Francesco “Fry” Moneti. A tutti loro devo moltissimo. E tengo a ringraziare anche Giovanni “Gaspers” Gasparini, storico fonico dello studio che con la sua grande esperienza e professionalità ci è stato di grande aiuto durante le registrazioni.
E poi parliamo della veste grafica: perché questo disco è un’opera anche da vedere e da sfogliare o sbaglio? Di nuovo il connubio tra arte e canzone. Perché?
Credo sia una questione di DNA: il mio amore e la mia passione per le arti figurative comincia dall’infanzia, quando restavo già da bambino ad osservare mio padre Massimo Cantini dipingere in quello stesso spazio che ancora oggi è il suo studio/galleria. Proprio lui è l’autore della bellissima opera di copertina e retro del disco, oltre che degli interni del booklet: un grande artista, che stimo molto da sempre e al quale devo tanto per tutto ciò che mi ha trasmesso in termini di sensibilità e amore verso l’arte. Tra l’altro, il connubio di cui parli costituisce anche una deformazione professionale: svolgo il mestiere di architetto e designer, e prima di laurearmi presso la facoltà di Architettura di Firenze ho passato quattro indimenticabili anni al Liceo Artistico.
Il nuovo video che hai lanciato: “Un figlio”. Che momento è del romanzo? E qui torna prepotente il concetto di sopra: la ribellione dai tiranni, la vita dei vinti che prosegue reagendo all’oppressione, quel certo modo di crearsi una salvezza, un luogo, una fantasia. È il bombardamento di San Lorenzo…
Il videoclip è stato girato a Firenze dai registi Giacomo De Bastiani e Lorenzo Ci, due preziosi compagni di viaggio con i quali collaboro con soddisfazione da qualche anno (con Giacomo dal 2014, quando girammo il video di “Pazienza”).
Come hai giustamente notato, la canzone si ispira in parte alla descrizione dei bombardamenti sopra il quartiere San Lorenzo di Roma: Ida e Useppe scampano miracolosamente all’inferno di macerie ma perdono, sotto le bombe, la propria casa e l’amato cane Blitz. Il figlio a cui mi riferisco non è altro che un simbolo di resistenza: quella giovinezza vissuta nel bisogno vitale di liberarsi sempre, ad ogni costo, da ogni manifestazione di tirannia e prevaricazione.
Che scena incredibile di Useppe che gioca sulle macerie di casa. Se non ricordo male (scusami in caso contrario), che incantevole incoscienza era la sua?
Quell’incoscienza che poi ci permette di sorpassare le regole, quelle famose regole che vengono imposte dalla privatizzazione… e il cerchio sembra chiudersi…
Un’incoscienza incantevole e direi molto commovente, così come il suo amore incondizionato per ogni cosa e persona, che la Morante sottolinea più volte e che io racconto nel brano “Luglio ‘43”. Useppe è una figura chiave dell’intero romanzo, è il simbolo della joie de vivre dei “poveri di spirito”, la celebrazione morantiana dell’innocenza e della vitalità. E con la sua epilessia, “il grande male” ereditato dalla madre, ci conduce all’ultimo capitolo che Pasolini definì il Libro delle morti. Quando la vita si libera dalla sua mortuarietà.
E di nuovo al video: ribellione di allora che avete reso esteticamente efficace (nella metafora e nel messaggio) attraverso questi 3 ragazzi di etnia diversa se vuoi (mi riferisco all’attore Sayak Liam Rijkard), e che bello il parallelo tra quel passato e questo presente…
Un progetto ben restituito dai tre giovani attori: Ernesto Verga (che è anche mio nipote), Sayak Liam Rijkard, e Anna Moretti. Riguardo al senso delle immagini, come dicevo in precedenza, la furiosa denuncia morantiana è costantemente applicabile: ancora oggi fronteggiamo i poteri occulti della Storia, quelli che quotidianamente decretano la morte e la sventura degli umili, gli stermini e le stragi.
Mostriamo anche l’altro video che uscì diversi mesi fa: “L’Orrore”. La congiunzione tra i due l’abbiamo ampiamente celebrata. Ma proprio la fattura del video, la logica, l’estetica, la direzione: insomma tutto è completamente diverso e distante. Come mai?
Questa è una domanda alla quale saprebbero rispondere in modo più esauriente - per quel che concerne l’aspetto tecnico - Giacomo De Bastiani e Lorenzo Ci, che hanno realizzato entrambi i video. Certamente, ne “L’orrore” c’era l’esigenza di descrivere il dramma di uno stupro rivissuto attraverso il ricordo, quella dolorosa cicatrice che un tale abuso comporta e che riaffiora in ogni momento del vivere quotidiano: ciò che emerge è l’impotenza della vittima, in questo caso rappresentata molto bene dall’attrice Valentina Reggio. Mentre nel video di “Un figlio” si è lasciato spazio alla speranza rintracciabile negli occhi di una nuova generazione, ottimisticamente consapevole e libera da ogni pregiudizio.
Chiudiamo questa lunga intervista pensando ad oggi. Uno scenario totalmente main stream fatto di superficialità espressiva e di una comunicazione assolutamente ovvia e diretta. Un disco di parole così impegnate ed impegnative, di rimandi culturali così dettagliati, secondo te che target e che tipo di vita avrà? Al di là della bellezza, credi che esista la sensibilità e la voglia di cimentarsi in un progetto assai impegnativo?
Ti ringrazio per le belle domande e per le considerazioni lusinghiere. Sinceramente sono questioni che non mi pongo e che credo di avere il dovere di non pormi quando scrivo e realizzo un disco. Penso di dover rispondere soprattutto a me stesso del mio modo di fare musica, perseguendo determinati obiettivi artistici che non necessariamente devono soddisfare un target. Detto questo, ovviamente spero che queste canzoni possano suscitare interesse in più persone possibili.