"Outside is America"
Bullet the Blue Sky - U2, 1987
Là fuori: è America[1].
Non sono parole consolanti quelle che cantava Bono nel disco con in copertina il deserto e un albero la cui forma rimandava a una storia di tanto tempo fa. Una terra selvaggia, fatta di enormi spazi e distanze. Lo stesso deserto che si vede all’inizio del film: immagine apparentemente statica di un luogo che è solo sibilo e sferragliamento[2]. Apparentemente - dicevo - perché, a osservare meglio, verso la parte sinistra dell’inquadratura si può scorgere il lento incedere di una testuggine.
Festina lente, affrettati lentamente, motto latino di cui si faceva carico Alvin Straight nel film di fine millennio di David Lynch, Una Storia vera, pellicola che destò grande stupore per la sua semplicità e per l’assenza delle tipiche immagini angoscianti e oscure che hanno reso grande il regista di Missoula. Niente oscurità ma un film girato alla luce del sole per narrare l’impresa di un vecchio, un uomo che si mette “a cavallo” di un trattore percorrendo miglia e miglia solo per rivedere il fratello con cui non parla da una vita.
Il fratello in questione è Harry Dean Stanton, lo stesso protagonista di questo immenso, anzi no, definitivo film. Perché definitivo? Perché raccoglie tutto un immaginario, esteso metaforicamente tanto quanto l’America: un insieme di riferimenti iconici che, almeno per diverse generazioni, hanno costituito una mappa di riferimento. Penso ad esempio alla scena iniziale del film in cui, dopo essersi preparato con la ritualità di ogni giorno, il novantenne Lucky, è inquadrato di spalle mentre apre una porta che poggia su un tipico pavimento in assi di legno. Impossibile per chi ama il Cinema non ritornare con la memoria a una delle scene finali di Sentieri Selvaggi con John Wayne che esce e se ne va per le zone desertiche.
“Juan Wayne”, come dice scherzosamente Stanton alla commessa ispanica del negozio dove si reca ogni giorno a prendere il latte[3]. La stessa scena viene, in qualche modo, citata da Terrence Malick in The Tree of Life quando da una casa la madre apre una porta (stessa in quadratura del film di John Ford) che dà su una landa estesissima. A chi ha visto il film è chiaro che quell’immagine fa parte della raffigurazione del Paradiso e l’argomento non capita a caso data l’età del personaggio di Harry Dean Stanton. Magistrale la scena in cui quest’uomo dai modi spicci, ma non rudi, diretti e proprio per questo sfrontatamente sinceri, si confida alla cameriera del bar in cui ogni giorno si reca a bere il caffè, rivelandole un segreto: “Ho paura”. Paura di morire.
“Oh no, I see a darkness” …risuonano nella mia testa le parole di una canzone cantata da molti e, per quanto mi riguarda, innestata nel cervello con il timbro di Johnny Cash. The Blackman, per l’appunto, l’artista resuscitato dal geniale intuito di Rick Rubin che gli propose di produrlo in un album di cover di vecchi classici dal titolo American Recordings; in copertina Cash era fotografato vestito di nero in un campo selvatico, con accanto due cani: uno nero e uno bianco. Peccato e redenzione?
Darkness, l’oscurità, dicevamo.
Quel buco nero che ogni mattina Lucky intravede, nonostante alla sua età s’impegni ancora a mantenere agile il fisico con la pratica yoga e la mente con le parole crociate, al bar, il tipico bar immortalato in tanti film ma soprattutto in “Twin Peaks”. Basta la ripresa di un’insegna illuminata, inquadrata dal basso e siamo da subito catapultati nelle atmosfere della mitica serie ideata da David Lynch (che non per caso recita in questo film) e ovviamente nei quadri di Edward Hopper, riferimento iconico del regista di Missoula che nasce come pittore. Il suo personaggio si chiama Howard (un omaggio a HOpper edWARD?) ed è affranto perché Roosvelt è sparito. I frequentatori abituali del bar lo guardano e gli chiedono a quali dei due presidenti americani si riferisca. La scena sarebbe follemente ridicola se non fosse messa in bocca a David Lynch[4]. Roosevelt è la testuggine che ha cent’anni e che ne potrebbe vivere altri cento, l’animale che abbiamo visto nell’incipit del film.
Qualcuno se n’è andato, forse, come sostiene il regista a un certo punto del film, perché aveva qualcosa di più importante da fare, come se fosse mosso da un compito. Andarsene, quindi, dentro al nero, quel colore con cui chiudeva disperatamente il libro “Everymen” di Philip Roth, dove si ripercorreva a ritroso la storia di un morto per arresto cardiaco e che si apprestava a chiudere gli occhi per quel viaggio nel buio, nel nero che aveva sempre sospettato essere l’unica realtà esistente una volta morti.
“Oh no, I see a darkness”.
L’oscurità della mente. Deserto interiore. Torna sempre il deserto.
“Cosa ci faccio qui?” era la domanda stampata sul volto del protagonista di Paris, Texas il film di Wim Wenders in cui figurava ancora Harry Dean Stanton come protagonista (è una filiazione, certe cose si chiamano e si tengono per mano). Anche in questo caso un incipit in una zona desolata dove compariva un uomo dal volto segnato in cerca di sé stesso e della donna e del figlio che aveva abbandonato. Tornare, Volver, come spesso ripete Lucky nella canzone che improvvisamente inizia a cantare alla festa per il compleanno del figlio della commessa ispanica. In piedi, solo, in compresenza di persone che non parlano la sua lingua e di fronte a un ragazzo che ha ancora davanti a sé tutta la vita. Per lui invece, il tempo, il Tiempo si sta facendo corto. Ecco però che qualcosa si muove in lui, uno scatto impercettibile che stupisce tutti i partecipanti, increduli di fronte ad un uomo che canta nella loro lingua accompagnato dalla musica dei mariachi.
E allora, di fronte all’oscurità cosa resta da fare?
Dopo la festa Lucky torna (Volver) nel locale dove si ritrova usualmente a bere e, dopo le bevute in cui discettato di Realismo, di Verità e della non esistenza dell’Anima, apre la porta ed esclama biblicamente: “Uno di voi mi tradirà”. Eccolo che torna il Joshua Tree, ecco che sempre di parabola in parabola David Lynch riconosce che anche la testuggine se n’è andata verso il suo destino e lui, come ogni buon padre è pronto ad accogliere il figliol prodigo in ogni momento.: “Il cancello è sempre aperto, per quando vorrà tornare. Lei sa dove è la strada di casa”.
“Oh, no I see a darkness…don’t you know how much I love you?”
Cosa resta da fare?
In una delle scene più toccanti Lucky incontra nel locale dove ogni giorno beve caffè, un marine che gli racconta un episodio della Seconda Guerra Mondiale, con i Giapponesi che piuttosto che, dopo aver sentito racconti terrificanti di ciò che i Marines avrebbero fatto loro, piuttosto che affrontarli spingono i figli giù da una rupe per poi buttarsi a loro volta. E in una grotta, sporca e lurida, ecco una bambina che lo guarda e gli sorride. Come venne spiegato al marine a quel tempo, la bimba non sorrideva a lui, ma essendo buddista, al proprio destino.
Ultima scena: deserto. Un uomo cammina, ha novant’anni e indossa stivali e cappello da cowboy[5].
Si avvicina a un cactus che ha un braccio spezzato. Guarda dritto nella macchina da presa.
Ci guarda. E accenna a un sorriso.
In lontananza, dal lato sinistro da cui era sparita, ritorna la testuggine, con passo più spedito.
Bringing it all back home. Prepariamo il vitello grasso.
Festa. Anzi no, Fiesta!
[1] La lingua Inglese non chiede tante specifiche. ‘Outside’ è più grande di ‘là fuori’, ma serve a evidenziare una distanza, una differenza nelle dimensioni.
[2] Sibilo e sferragliamento alias Rattle & Hum, parole contenute nella canzone posta in esergo e che hanno dato vita a un discutibile album mezzo-live
[3] Ho perso il conto dei film americani dove un uomo apre un frigo vuoto contenete de latte. E anche in questo caso…
[4] Niente in questo film viene lasciato al caso, nemmeno le ripetizioni degli esercizi yoga, in un film che vede la presenza di un “sacerdote” della meditazione trascendentale, David Lynch per l’appunto.
[5] Cowboy. Già, le mucche. Quei “Piccoli animali senza epsressione” che rimandano a un altro grande american boy, David Foster Wallace con quel tremendo racconto che parla di due bambini abbandonati ad un palo, mentre in un campo vengono fissati da delle mucche.