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La filosofia dei Genesis. Voci e maschere del teatro rock
Donato Zoppo
(Mimesis Edizioni)
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19/07/2018
Donato Zoppo
La filosofia dei Genesis. Voci e maschere del teatro rock
Il teatro Rock dei Genesis: parola a Donato Zoppo.

Mi si taccerà di essere un commentatore di parte vista la nostra lunga amicizia ma spero mi vogliate credere quando dico che ogni cosa che scriverò in merito è ben misurata da un senso di rispetto e oggettiva ammirazione. Ci sono libri che vanno letti più volte e sicuramente quello di cui vi parlo ne è un esempio eclatante. Ci sono autori che andrebbero ascoltati per giorni vista la loro capacità di vivere sulla propria pelle i racconti e la passione che hanno da trasmettere. Parlare con Donato Zoppo di musica a volte è disarmante, arriva forte quel sottile sentore di resa e di fascino nei confronti di un sapere assai vasto che non ha la presunzione di contaminare ed insegnare, non è un moralizzatore o un salvatore della patria, ma solo un uomo che ha la grazia e l’umiltà estetica di mostrare e di restituire. Belle parole queste. L’incontro prima di ogni cosa, anche nel sapere. Lasciamo ai VIP e ai sacerdoti di questo nuovo tempo di tastiere e opere facilmente comode le trincee mediatiche dietro le quali rendersi famosi. Ed è quindi sempre un grande piacere avvicinarsi alla lettura delle opere di Donato Zoppo.

Arriviamo dunque a questo libro, ennesimo capitolo della Mimesis Edizioni che cerca l’incontro/scontro tra filosofia e musica. Si intitola “La filosofia dei Genesis - Voci e maschere del teatro rock”: un libercolo di appena 110 pagine in formato tascabile (come ogni uscita di questa collana) che celebra e sviscera in tutte le pieghe sociali e caratteriali quel lungo periodo d’esordio di una delle più grandi band del progressive inglese (e mondiale diremmo poi). Ad una rivoluzione personale di quel vivere alto-borghese di 5 ragazzini non ancora maggiorenni, si sono affiancate le scritture di opere che poi diventeranno dei riferimenti di stile. E alla timidezza di mostrarsi genio creativo e visionario, Peter Gabriel rispose introducendo le maschere che più che essere un rifugio probabilmente hanno svolto un ruolo di riconoscenza e riconoscimento del suo vero io, come a legittimare in scena l’esistenza dell’uomo d’arte e di vita che (forse ricavo io dalla mia lettura) diversamente non veniva considerato. E alle maschere soprattutto viene destinato il ruolo di rendere visibile i racconti alchemici delle loro composizioni, momenti teatrali di scena che spesso non erano solo un arricchimento ma anche un vero corollario di forma e di senso. Ma ad una linea orizzontale su cui i Genesis costruivano la loro immagine, senza leader, senza protagonisti e ruoli secondari, l’invadenza scenica e mediatica di quelle maschere ha dato assai fastidio e fu questa la causa principe che ha decretato la rottura e lasciato poi il campo libero ai Genesis del futuro che dal 1976 di “A Trick Of The Tail” arrivano fino al 1997 con “Calling All Stations”.

Ecco dunque una di quelle letture che semina grandi momenti di conoscenza e di comprensione su quelle che sono alcune tra le principali opere della storia del Rock mondiale. Che sia Rock progressivo o meno…

 

Noi ci siamo conosciuti e penso che sempre ci conosceremo sotto l’effige del Progressive Rock. Prima di tutto: cos’è per te il rock progressivo? Posso permettermi di dire che la tua è tutt’altro che una semplice passione?

Il progressive è per me una vecchia, anzi antica passione. Se è vero che siamo ciò che ascoltiamo, che la musica ci nutre, allora posso dire che il progressive è stato in passato il mio principale alimento. Al prog poi sono seguite tante altre musiche, oggi ascolto praticamente di tutto ma riconosco che buona parte della mia personalità è stata influenzata dallo spirito del progressive. Credo di essere una persona dalla mentalità aperta, dalla propensione al dialogo, al riconoscimento delle peculiarità di ognuno, e questo lo devo a quel grande contenitore di anime musicali che fu il prog. Una musica di tolleranza, di pacifica convivenza tra componenti diverse, forse l'unico vero toccasana per il razzismo debordante della contemporaneità...

 

E veniamo ovviamente ai Genesis. Che sia proprio il “periodo delle maschere” il loro grande momento? Che poi è proprio l’inizio e come si sa forse è il momento di maggiore energia e ispirazione…

Indubbiamente i Genesis degli anni '70, quelli dell'epoca Gabriel per intenderci, hanno avuto dalla loro una grande freschezza, uno spirito primaverile dovuto anche all'età dei singoli e al contesto storico che favoriva grandi esperimenti rock. È per questo che ancora oggi “quei” Genesis sono ricordati con grandissimo amore. Personalmente non ho pregiudizi verso la fase successiva, anzi amo dischi come “Duke”, ma non credo sia campato in aria affermare che andato via Gabriel sia venuta meno una parte importante, decisiva, dell'esperienza Genesis. La presenza delle maschere è stata una sorta di catalizzatore, intorno al quale si sono concentrati tutti gli ingredienti della loro musica. Dietro la maschera da volpe, il fiore o il pipistrello, non c'era solo un giovane Gabriel, ma la musica dell'intero gruppo, i loro obiettivi, le loro ambizioni, il loro grande talento.

 

Se non erro direi che raramente nel Prog si sono viste estetiche di spettacolo altrettanto eccentriche come quelle realizzate da Gabriel. Almeno per quel che riguarda i costumi. Eppure, anche solo pensando alle grandissime copertine di questo genere di dischi, io mi aspetterei che venisse trattata la scena quasi con maggiore attenzione rispetto al suono stesso. Tu cosa ne pensi?

La storia del rock, a partire dall'affermazione della cultura rock nel 1965-66, è storia di immagine. Le copertine in quel periodo si affrancano dall'immagine fissa del faccione del cantante di turno per diventare luoghi di sperimentazione, aree di incontro con il mondo dell'arte contemporanea e della fotografia. Basta pensare a nomi come Andy Warhol, Richard Hamilton, Gered Mankowitz, i nostri Umberto Telesco, Gianni Sassi, Caesar Monti, per avere un'idea di quale importanza aveva una copertina nel progetto artistico di un album. Nel progressive tutti i protagonisti, in modi e tempi diversi, hanno sviluppato la loro estetica, sia nell'arte grafica (pensa a Yes e Gentle Giant), sia nelle dinamiche degli spettacoli (mi vengono in mente i Jethro Tull spettacolari di metà anni '70 o, per converso, l'atteggiamento minimale, scheletrico, quasi sfrontato, dei Soft Machine post-Wyatt). Fino a quando c'è stata ispirazione, quindi grosso modo fino al 1973-74, il prog si è retto su un bell'equilibrio tra parte visiva, musicale, contenutistica, concettuale, poi qualcosa è venuto meno e alcuni hanno fatto prevalere la parte più immediatamente visibile, quella della ridondanza live, dell'eccesso. Peccato perché i principali dischi prog dal 1969 al 1972 avevano una freschezza e un'inventiva incredibili.

 

Ribadiamo un concetto assai interessante che nel libro sviluppi con estrema cura: maschere e scritture. Cosa inseguiva cosa? E quanto è stato semplicemente figlio del caso?

Nelle vicende di giovincelli poco più che ventenni, figli dell'alta borghesia britannica che desiderava per loro un futuro da professionisti affermati e prestigiosi, il caso ha avuto un ruolo minimo a mio avviso. È stato invece determinante il voler andare contro le aspettative delle loro famiglie e spingere con tenacia verso il fare musica. I Genesis sono un gruppo strano, proprio perché non provenendo dalla working class, non hanno vissuto il rock come rivalsa di classe, come forma di liberazione sociale, ma come alternativa professionale al mondo dei genitori. Hanno dimostrato alle loro famiglie di poter vivere di musica, e il bello è che il primo contratto, quando non erano ancora maggiorenni, fu firmato dai genitori! A fronte di questa determinazione e della consapevolezza di un progetto artistico totale, l'uso delle maschere divenne inevitabile. Con un pizzico di casualità, perché Peter Gabriel scoprì che un buon modo per vincere la sua innata timidezza, per catturare l'attenzione del pubblico e della stampa, per “materializzare” le canzoni che scrivevano, poteva essere proprio quello visivo. L'uso di maschere e costumi, poi di scenografie, elementi di scena e in generale la gestione del palco, erano in linea con il contenuto dei brani: mai i Genesis hanno usato una spettacolarizzazione fine a se stessa. Il loro teatro rock, coevo a quello di Bowie e Alice Cooper, non faceva altro che offrire al pubblico una versione “visiva” di quello che si ascoltava su Lp. Basta pensare al capolavoro “The Musical Box”, con l'interpretazione gabrieliana eccezionale, fedele a quella del disco, resa con il minimo indispensabile, cioè una maschera da vecchio e gesti tremolanti, assai efficaci e credibili.

 

Il concetto di teatro che non diveniva fine a se stesso ma investiva impegno nel permeare concetti sociali e politici. Il teatro, come la canzone, diveniva un unico mezzo. Eppure il prog fedele alla linea ha sempre “boicottato” in qualche modo questa scelta o sbaglio?

Credo siano due cose diverse. L'idea di teatro rock come momento di completamento del disco, come perfezionamento di un percorso partito dalla copertina, incarnato nel vinile e poi affidato alla performance, accomuna i protagonisti del prog, anche quelli più “dimessi” - in termini di spettacolarità live - come King Crimson e Gentle Giant. Altro è invece il riferimento a concetti sociali e politici, tema che non è mai stato particolarmente a cuore ai gruppi prog, ma bisogna intendersi: nel progressive non ha mai trovato spazio l'attitudine militante (se non nel mondo del Rock In Opposition dei vari Henry Cow e Stormy Six o nel caso limite di Robert Wyatt) eppure tutti questi gruppi hanno partecipato alla cultura rock dell'epoca, che aveva in sé la frattura generazionale post-sessantottina. Dai folleggianti Gong ai più sognanti Camel, tutti hanno avuto una posizione politica latu sensu, a volte anche inconsapevole.

 

E quindi non a caso arriva il divorzio tra i Genesis e Gabriel? O forse banalmente perché il suo era un teatro privato e non condiviso dal resto della band?

Sì, non ci fu mai una vera e reale condivisione dell'aspetto teatrale, se non da parte di Steve Hackett. Tony Banks e Mike Rutherford, e in seguito lo stesso Phil Collins, uomini di musica senza fronzoli, non hanno mai gradito fino in fondo la scelta gabrieliana. L'hanno accettata perché utile per la sopravvivenza del gruppo, ma a un certo punto le eccessive attenzioni della stampa per Peter – ricordiamo che non era il leader del gruppo, caratterizzato da una dimensione abbastanza “orizzontale” - hanno creato un turbamento nel gruppo. Non dimenticare che si tratta di ragazzi provenienti da famiglie più che benestanti, cresciuti nell'austero college Charterhouse, quindi non molto espansivi ed estroversi. Lo stesso Gabriel è ancora oggi una figura molto riservata, fino al 1975 maschere e costumi gli servivano anche per nascondersi, questo non è da sottovalutarsi. Il divorzio arriva alla fine del tour di “The Lamb Lies Down On Broadway”, disco nato proprio da una sorta di separazione consensuale, con le musiche dei quattro e i testi del cantante, cosa mai successa prima nel gruppo.

 

Entrando nello specifico delle opere dei Genesis: musica classica, mitologie, surrealismo e futurismi filosofici. E la politica corrente, le guerre e le rivoluzioni?

Anche qui non credo si debba essere così netti nel distinguere un argomento da un altro. Certo, mentre Lennon cantava “Working Class Hero”, Wyatt si iscriveva al Partito Comunista inglese e i Gong narravano il volo allucinogeno di “Zero The Hero”, i Genesis mettevano su disco e in scena fiabe macabre, episodi mitologici, quadretti surreali o squarci da un futuro remoto. Erano pur sempre ragazzi provenienti da uno dei college più illustri d'Inghilterra e non avevano alle spalle le art school come Who, Bowie e Pink Floyd, questo contava moltissimo. Ma in lontananza, o tra le righe, anche le canzoni dei Genesis erano ritratti generazionali, perché “Get ‘Em Out By Friday” era una critica sociale sugli scandali edilizi, “The Battle Of Epping Forest” era un grande sfottò delle risse tra gang rivali e l'intero “The Lamb” un itinerario alchemico nelle viscere newyorkesi. Non erano insomma così lontani dal reale, certo non erano dei folksinger cronachisti alla Phil Ochs né fari per una generazione come Bob Dylan.

 

E per chiudere guardiamo il mondo da casa nostra. Dai Capitolo 6 ai più recenti PFM. Abbiamo davvero qualcosa da invidiare alla discografia inglese?

C'è stato un periodo in cui il rock italiano è stato altamente competitivo con quello inglese. Il prog nostrano ha annoverato centinaia di gruppi, ma credo che PFM, Banco, Orme, Osanna, New Trolls, Balletto di Bronzo e soprattutto Area, siano stati il fiore all'occhiello di un'epoca d'oro. Pensa al “caso” PFM, ancora oggi uno dei nomi di punta del prog internazionale, osannati come i colleghi inglesi, oppure all'amore che nomi “minori” come Museo Rosenbach, Locanda delle Fate e Rovescio della Medaglia hanno in Giappone. Il motivo? Il nostro prog era allineato con quello inglese ma aveva delle peculiarità tutte sue, dalla melodia alla ricchezza cromatica, dalla fantasia all'esotismo della lingua italiana, insomma un insieme di fattori fortemente caratterizzanti. Se pensi poi al biennio americano della PFM, quando Di Cioccio e soci suonavano con Allman Brothers, Santana, Beach Boys e Poco, allora abbiamo avuto davvero un'eccellenza straordinaria, un piccolo rinascimento musicale, purtroppo sfiorito.