Grunge, post-hardcore e alternative rock. Un pizzico di emo e due di poesia. Una shackerata di ottime melodie e un’aggiunta a caldo di aggressività latente e disperazione a grappoli. Questo il nuovo inebriante cocktail dei Microwave. Un terzo disco che rischia di essere il migliore pubblicato sinora dalla band.
I quattro ragazzi di Atlanta, Georgia, che dalla loro formazione nel 2012 hanno già pubblicato altri due album e cinque EP, hanno evoluto le loro sonorità verso lidi più oscuri, tingendo il proprio mondo di una bellezza cupa e angosciosa. Un suono che si accompagna a testi di un tenore diverso dai precedenti, dove i problemi di salute, l’instabilità finanziaria e l’ombra del tumulto socio-politico trovano nel caos nichilistico una via di uscita, nutrita più da un’onesta apocalisse che da vane speranze.
La penna dei Microwave è salda nelle mani di Nathan Hardy, cantante e chitarrista, e ciò che produce, parola dopo parola, album dopo album, è sempre un incrocio di inchiostro e frammenti d’anima. Il frontman è stato cresciuto come mormone, ha servito come missionario per qualche tempo, ma ha deciso di lasciare la chiesa quando aveva 21 anni, chiudendo i rapporti con la sua comunità d’appartenenza e decidendo di cambiare vita. Gran parte di Stovall (2014), infatti, è centrata sul rapporto di Nathan con la religione, mentre su Much Love (2016) affronta temi simili, anche se in misura minore. Con Death Is A Warm Blanket, invece, le tinte e i contenuti cambiano e i problemi della vita adulta si manifestano in tutta la loro complessità, tra frustrazione, dolore e disperazione.
«Non l'ho mai voluto. Qualunque cosa io abbia adesso. Stavo aspettando che diventasse più facile. Lo sto ancora aspettando. Mi stai tirando indietro. Hai vinto. Non posso. Non posso farlo di nuovo. Se mai dovessi andare così male, portami in un campo e sparami. […] I giorni migliori sono quando so che è finita. Il peggio è quando spero che non lo sia. C'è una nota a piè di pagina in fondo a una pagina che nessuno legge. L'ultima rappresentazione di quello che eravamo.» (“Pull”)
«Risolvi ciò che è rotto. Se non è rotto, rompilo. […] Distruggi qualsiasi cosa ti faccia sentire insicuro.» (“Hate TKO”)
«Ho cercato di vendere la mia anima. Sono in fondo alla fila» (“DIAWB”)
La resa sonora vede l’afflizione del grunge unirsi all’aggressività del post hardcore, per avvilupparsi nella melodicità catartica dell’alternative rock. La voce passa dai sussurri più subdoli alle urla più aggressive, dimostrandosi ad ogni nota una vocalità eccitante, frustrata, riflessiva e brutalmente sincera, di quelle che dondolano sul precipizio dell’oblio.
In 11 tracce e 30 minuti i Microwave trasformano l’incertezza della vita, la sofferenza, la sensazione di affogare nel dolore, nella confusione e nella tristezza, la rabbia che si autoalimenta, il problema di ammalarsi e di non poter fare nulla al riguardo, la sensazione impotente di voler migliorare, ma non avere le risorse per farlo, in bellezza. Quella bellezza fragile, pallida, pura e dannata.
Un disco che ci si cala in dosi e scorre nelle vene, che si insinua nel cervello e penetra negli anfratti. Un album che genera sorrisi subdoli e pensieri lisergici. Da cui si esce solo per volerci rientrare ancora una volta, solo una volta ancora. Ho premuto di nuovo Play. Dannazione.